Uno studio dell’IBPM-CNR, pubblicato sulla rivista ‘Science Advances’, rivela, come, cambiare l’identità di una popolazione di cellule muscolari, possa promuovere la rigenerazione dei muscoli distrofici e potrebbe portare a un approccio farmacologico per alcune patologie come la distrofia muscolare di Duchenne.
di Piero Mastroiorio —
Uno studio, pubblicato su Science Advances, realizzato col sostegno dell’AFM-Telethon, del programma SIR, Scientific Independence of young Researchers, del MIUR, Ministero dell’istruzione, università e ricerca, condotto dal gruppo di Chiara Mozzetta insieme alle biologhe Beatrice Biferali e Valeria Bianconi, prime autrici del lavoro, dell’IBPM-CNR, Istituto di biologia e patologia molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche, rivela come a alcune cellule, note con l’acronimo FAP, oltre ad essere le progenitrici fibro-adipogeniche, rappresentino un’arma a doppio taglio del muscolo scheletrico. Queste cellule, infatti, in condizioni fisiologiche rilasciano dei fattori che aiutano le cellule staminali muscolari alla rigenerazione del muscolo. Nel corso della degenerazione che si verifica nei tessuti affetti da distrofia muscolare di Duchenne invece, le FAP danno origine all’infiltrato adiposo e fibrotico che rimpiazza progressivamente il tessuto muscolare, rendendolo meno funzionale.
«Abbiamo rivelato in che modo è possibile cambiare il destino di queste cellule riuscendo a spingerle a formare nuovo tessuto muscolare e bloccando quindi la loro capacità di generare cellule fibrotiche e adipose. Sapevamo da studi precedenti che le FAP sono capaci di acquisire diverse identità a seconda dell’ambiente in cui si vengono a trovare e in questo lavoro abbiamo capito come riconvertirle in cellule in grado di partecipare alla rigenerazione muscolare, piuttosto che alla degenerazione», spiega la ricercatrice dell’IBPM-CNR, Chiara Mozzetta.
Le ricercatrici hanno rivelato come i geni, responsabili dell’acquisizione della capacità di formare nuovo tessuto muscolare, siano confinati alla periferia del nucleo delle FAP, dove vengono relegate quelle porzioni del genoma che non sono utilizzate dalle cellule, come sottolinea la dell’IBPM-CNR, Mozzetta: «La proteina Prdm16 gioca un ruolo cruciale nel bloccare le regioni di DNA codificanti il potenziale muscolare delle FAP alla periferia nucleare, reclutando su di esse gli enzimi G9a e GLP per mantenerle silenti. Abbiamo provato quindi a sbloccare queste regioni utilizzando un approccio farmacologico volto ad inibire G9a/GLP, riuscendo a dimostrare che togliendo questo ‘freno’ molecolare questi geni possono essere rilocalizzati dalla periferia verso una parte più attiva del nucleo, sbloccando la capacità delle FAP di formare tessuto muscolare.».
Lo studio, a cui hanno collaborato gruppi dell’Università Sapienza di Roma, dell’IIT, Istituto italiano di tecnologia, di Roma, dell’IEO, Istituto Europeo di Oncologia, di Milano, della Freie Universität di Berlino e l’IRBM di Pomezia, potrebbe aprire la strada a un approccio di tipo farmacologico per quelle patologie, come la distrofia muscolare di Duchenne, in cui le FAP contribuiscono alla degenerazione muscolare.