Un esperimento, che ha coinvolto studiosi del Consiglio nazionale delle ricerche, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e del Distretto ligure per le tecnologie, ha dimostrato come materiali biopolimerici, sottoposti ad un processo di degradazione, rispettivamente in mare e sabbia, hanno mostrato tempi di degradazione comparabili a quelli di materiali non bio.
di Piero Mastroiorio —
La risposta arriva dai risultati di un innovativo esperimento, condotto congiuntamente dal CNR, Consiglio nazionale delle ricerche, insieme al IPCF-CNR, Istituto per i processi chimico-fisici del CNR, ISMAR-CNR, Istituto di scienze marine del CNR, INGV, Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e DLTM, Distretto ligure per le tecnologie marine, con il supporto del CNeS, Centro Nautico e Sommozzatori della Polizia di Stato di La Spezia, pubblicato sulla rivista open access ‘Polymers’, relativo il comportamento a lungo termine di differenti tipologie di granuli di plastica vergine, resin pellet, utilizzati per realizzare oggetti di uso comune, che ha dimostrato come queste bioplastiche, se disperse nell’ambiente, hanno tempi di degradazione molto lunghi, comparabili a quelli di materiali plastici non bio.
I ricercatori hanno comparato due polimeri tra i più impiegati negli oggetti di plastica la HDPE e la PP e due polimeri di plastica biodegradabile la PLA e PBAT, verificandone il grado di invecchiamento e degradazione rispettivamente in acqua di mare e sabbia: in entrambi gli ambienti, nell’arco di sei mesi di osservazione, né i polimeri tradizionali né quelli bio hanno mostrato una degradazione significativa. L’osservazione dei campioni, unitamente all’esito di analisi chimiche, spettroscopiche e termiche, condotte presso il laboratorio pisano del IPFC-CNR, coordinato dalla ricercatrice Simona Bronco, mostra che nell’ambiente naturale le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto più lunghi rispetto a quelli che si verificano in condizioni di compostaggio industriale.
«Data l’altissima diffusione di questi materiali, è importante essere consapevoli dei rischi ambientali che l’utilizzo della bioplastica pone, se dispersa o non opportunamente conferita per lo smaltimento: è necessario informare correttamente», spiega la ricercatrice del ISMAR-CNR di Lerici (La Spezia) e coordinatrice del progetto, Silvia Merlino.
«Questo studio mette in luce l’importanza di una corretta informazione riguardo alla plastica biodegradabile, soprattutto dopo lo stop alla plastica usa e getta in vigore in Italia dal gennaio 2021 in attuazione della direttiva europea ‘Single use plastic’, che ha portato alla progressiva commercializzazione di prodotti monouso in plastica biodegradabile, come i polimeri presi in esame», aggiunge la ricercatrice dell’INGV e co-coordinatrice dello studio, Marina Locritani.
L’esperimento, tuttora in corso e si concluderà nel 2023, è il primo di questo tipo realizzato interamente in situ, ha utilizzato, per il set up sperimentale, la piattaforma multi-parametrica di monitoraggio ambientale “Stazione Costiera del Lab Mare”, posta a 10 metri di profondità nella Baia di Santa Teresa nel Golfo di La Spezia, realizzata nell’ambito del progetto Laboratorio Mare del Distretto ligure per le tecnologie marine, cofinanziato da Regione Liguria, risorse PAR-FSC 2007-2013 “Fondo per lo sviluppo e la coesione”, alla quale collaborano anche l’Istituto Idrografico della Marina e l’ENEA, che, qui, grazie, anche, al supporto del Centro nautico e sommozzatori di La Spezia e della Cooperativa mitilicoltori spezzini, hanno alloggiato particolari “gabbie”, progettate per contenere i campioni di plastica, predisponendo, tra l’altro, una vasca contenente sabbia, esposta agli agenti atmosferici per simulare la superficie di una spiaggia.
Ulteriori esperimenti, condotti sempre in acque liguri, riguarderanno lo studio dei processi di degradazione in condizioni di maggiore profondità, grazie all’installazione di ulteriori gabbie contenenti plastiche e bioplastiche nella “Stazione profonda del Lab Mare”, a circa 400 metri di profondità.
Inoltre, in collaborazione con l’IZTO, Istituto zooprofilattico sperimentale, del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, è già in corso un ulteriore studio, che prevede l’analisi comparata dello stato di degradazione dei resin pellet in mare e della presenza di sostanze chimiche, come IPA, PCB e pesticidi, ivi disciolti e da essi assorbiti, nonché il confronto con i processi di ritenzione di contaminanti da parte dei mitili, storicamente ritenuti le “sentinelle” dell’inquinamento.