Approda in Cassazione la vicenda di un docente dell’Unione atei e razionalisti che ha imposto di togliere il crocifisso dall’aula di lezione contrariamente alla volontà degli studenti e del preside. La battaglia del Centro Studi Livatino che sta dedicando energie a difendere un principio di laicità e di civiltà: «Su quelle pareti non ha funzione di culto, ma culturale e identitaria».
di Andrea Zambrano – La Bussola Quotidiana
Sarà una sentenza storica, per questo è attesa dai giuristi con una certa apprensione. Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione sono chiamate a pronunciarsi sulla esposizione del Crocifisso nei luoghi pubblici. Approda al terzo grado di giudizio una vicenda iniziata da un docente di scuola superiore che durante le ore di insegnamento rimuoveva il Crocifisso andando contro la volontà degli studenti. Questi in maggioranza si erano espressi a favore della sua collocazione sulle pareti dell’aula, e disapplicando un provvedimento del Preside: per il suo comportamento, in conflitto anche col preside, al docente era stata irrogata la sospensione di 30 giorni dalle funzioni, sanzione ritenuta legittima in entrambi i gradi di merito.
Ora la vicenda approda in Cassazione per la pervicacia del docente che ha ingaggiato battaglia, essendo motivato anche dalla sua appartenenza all’Unione atei e agnostici razionalisti. E qui sta il primo punto: si tratta di una battaglia connotata ideologicamente.
I giudici della Corte Suprema sono chiamati a pronunciarsi se l’esposizione del Crocifisso comporti una lesione della libertà d’insegnamento e di quella di coscienza del docente, dando vita a una discriminazione a suo carico.
Il tema, dunque, è decisivo e si può estendere anche a tutti gli altri luoghi pubblici, non solo le scuole andando a imporre, nel caso in cui la Corte dovesse dare ragione al docente (negli altri due casi i tentativi sono andati falliti), la cosiddetta soluzione del muro bianco. Il Centro Studi Livatino segue da tempo la vicenda e si è occupato del tema anche con un apposito convegno il 30 giugno scorso.
Filippo Vari, giurista e membro del direttivo del Cs Livatino ha dedicato un articolo alla vicenda e ha fatto notare che «se il Crocifisso non è in grado d’incidere sul minore perché, come simbolo passivo, non influenza in modo confessionale l’insegnamento, tale ragionamento vale (ancor più) per l’adulto che impartisce l’insegnamento, e cioè il professore, come evidenziato dal giudice di primo grado». Secondo Vari «anche per la presunta discriminazione del professore hanno rilievo le considerazioni di Strasburgo sulla natura del simbolo religioso. Il professore, infatti, non è stato oggetto di un provvedimento sanzionatorio per aver espresso la sua posizione in materia religiosa e di coscienza; giustamente nessuno avrebbe potuto impedirglielo. Nemmeno (ovviamente) è stato richiesto un atto di approvazione, di ossequio verso il Crocifisso, che avrebbe potuto ingiustamente porre su un piano di differenziazione, discriminandolo, il non credente, contrario a compiere tale atto».
Il Livatino si è occupato del tema anche con altri due giuristi di fama.
Il primo è Angelo Licastro, ordinario di Diritto ecclesiastico all’Università di Messina. Licastro fa notare che il crocifisso alle pareti non ha una funzione di culto. «Basta scorrere i programmi di insegnamento per capire che l’esposizione del crocifisso nelle aule non assolve a questo tipo di funzione. Quindi i termini della questione mutano. In questo caso, diventa però centrale la natura di simbolo “passivo”. Il crocifisso non impedisce affatto che a scuola sia garantito e promosso il libero confronto delle idee e delle diverse visioni del mondo, sarebbe da mettere in conto semmai, ancora una volta, una situazione di errore o di falsa rappresentazione della realtà».
Anche Carlo Cardia, emerito di Diritto ecclesiastico dell’Università degli Studi Roma Tre e autorevole componente delle commissioni in materia di libertà religiosa e di rapporti con le confessioni religiose alla Presidenza del Consiglio ha posto l’accento sulla neutralità portata all’eccesso, «che cancella fede, religione e simbologia, che però non coincide con l’imparzialità, ma si trasforma nell’imposizione dell’irreligiosità, nella cancellazione dell’ispirazione spirituale che fonda e alimenta le qualità più alte dell’umanità.».
Il punto che deriva dalla decisione della Corte, quindi è ancora una volta quello dell’imposizione di un’irreligiosità spacciata per laicità. «Nessuno – ha fatto notare Cardia – si è veramente soffermato sulle conseguenze che deriverebbero da una scelta negazionista o abolizionista così drastica: la perdita di significato complessiva di tutto la simbologia religiosa mondiale, la cancellazione e umiliazione di sentimenti, tradizioni, identità collettive che pure interessano nazioni, Stati, intere aree geografiche, o geopolitiche e culturali. Scegliendo l’opzione negazionista, si darebbe luogo alla c.d. “espansività” propria di ogni questione giuridica di principio.».
Il giurista si è servito di un esempio: «Abolire i simboli religiosi di un Paese, addirittura nell’Europa intera, e perfino del mondo, sarebbe come se noi andassimo ad ammirare una splendida galleria rinascimentale e se la notte prima una mano avesse scolorito le tinte, annacquato gli sguardi, sfocato i lineamenti dei soggetti ritratti, della loro nascita, delle loro gesta. In questo caso noi non ammireremmo più quei personaggi e quelle idee vitali che trasmettono vita interiore, forza e debolezza, e riflettono la storia da cui provengono: li vedremmo trasformati in pallide ombre dell’Ade che si avviano verso un destino malinconico senza che nessuno le possa riconoscere».
Il punto cruciale – concludono dunque i giuristi – è che «ogni tesi giuridica drasticamente negazionista/abolizionista nei confronti della simbologia religiosa non soltanto è contraria ai principi e alle norme ordinamentali attualmente vigenti, ma soprattutto viola la base stessa del diritto positivo che non può fungere da strumento distruttivo delle rispettive identità popolari e nazionali».