Il dossier “Siamo alla frutta” dell’associazione Terra! spiega i meccanismi, il peso delle norme europee, le scelte della GDO e quelle dei consumatori sul fenomeno della “frutta brutta”, che non arriva nei supermercati e nel frigo di casa, perché considerata meno buona, finendo per alimenta un inutile spreco di cibo.
di Redazione —
“Un cibo bello non è sempre buono per l’ambiente e l’agricoltura”, dice il dossier “Siamo alla frutta” dell’Associazione ‘Terra!’, che sostiene che la frutta è buona anche se non è perfetta o bella, a proposito della grande quantità di cibo che neanche arriva sugli scaffali dei supermercati, come la frutta “brutta”, quella che non rispetta le norme sul calibro e l’estetica.
L’associazione Terra! ha lanciato, per gli agricoltori un appello al Ministro dell’Agricoltura per il superamento delle norme sul calibro e l’estetica dei prodotti, oltre che delle pratiche di acquisto della grande distribuzione, nonché, contro lo spreco alimentare “all’origine”, ha lanciato, qualche tempo fa, la campagna #SiamoAllaFrutta con l’intendo di denunciare e mostrare «l’enorme quantità di cibo che non arriva nemmeno nelle nostre case, perché i supermercati impediscono l’accesso sugli scaffali ai prodotti che non sono esteticamente perfetti. Lo fanno applicando pedestremente le norme europee del Regolamento 543/2011, che assegnano delle categorie ai prodotti ortofrutticoli in base alla loro bellezza e grandezza, scoraggiando così quelli meno grandi e con piccoli difetti… In tempo di cambiamento climatico è aumentata (causa gelate, grandinate, siccità e quant’altro) l’ortofrutta imperfetta, con ammaccature o imperfezioni. Però: è altrettanto buona, ma non arriva nella grande distribuzione. La produzione di frutta e verdura rappresenta uno dei più importanti settori del ‘Made in Italy’, eppure, la tendenza a commercializzare solo prodotti esteticamente perfetti sta mettendo in ginocchio il settore agricolo, che non riesce più a rispettare gli standard a causa dei cambiamenti climatici che ne modificano sempre più spesso forma e dimensioni.».
‘Siamo alla frutta’ vuole denunciare l’insostenibilità di queste pratiche che portano in casa prodotti standardizzati e abbandonano la frutta brutta, ma buona. Infatti, in vendita nei supermercati e nel frigorifero di casa, arriva solo la frutta perfetta, quella più lucida e più rotonda. Il resto viene avviato a mercati considerati più poveri, all’industria di trasformazione per farne succhi di frutta «dove, però, viene pagata una cifra irrisoria», diventando, spesso, scarto alimentare.
La filiera della frutta risente dei danni del cambiamento climatico, grandinate, gelate e siccità, ma, anche, del fatto che la commercializzazione di frutta “ammaccata” o più piccola è decisamente difficile. Per i supermercati, infatti, i consumatori non comprerebbero frutta brutta.
Il dossier, come tutti i consumatori, si pone alcune domande: quanto incide l’estetica del prodotto sulla sua commercializzazione e quanto impatta la rincorsa alla forma perfetta sull’economia agricola?
La risposta si rifà alla quasi totalità delle risposte ricevute dalla GDO, Grande distribuzione organizzata: «”il consumatore non comprerebbe mai” un prodotto esteticamente imperfetto, di calibro piccolo, con ammaccature da grandine, ecc., anche se ottimo dal punto di vista organolettico. È davvero il consumatore a non volere un prodotto “brutto ma buono” o è piuttosto responsabilità del mercato ad aver indotto i consumatori a fare del giudizio estetico una delle principali leve per l’acquisto?».
Il dossier si occupa delle filiere di mele, pere, arance e kiwi. Il cambiamento climatico e la diffusione di nuove patologie delle piante hanno un impatto sulla filiera delle pere e delle arance di Sicilia, tante ma troppo piccole per la GDO. Per i kiwi «oggi si registra la perdita del 20-25 per cento delle produzioni, con un decremento di 2.000 ettari nel solo Lazio, principale regione produttrice». Questo a causa della moria del kiwi, patologia ancora sotto studio, ma che sembra collegata al cambiamento del clima. L’unica filiera che funziona è quella delle mele che è stata «capace di stabilire un rapporto più equilibrato con le insegne della Grande distribuzione organizzata.».
Sulla crisi del comparto frutta pesano elementi diversi, la scarsa capacità organizzativa dei produttori, la concorrenza del prodotto estero venduto a prezzo più basso. E insieme a questo le pratiche della distribuzione che detta il prezzo e rifiuta la frutta brutta.
Ci sono poi le norme europee, che garantiscono la qualità dei prodotti commercializzati e sono dunque di buon senso ma, dice l’associazione nel dossier: «hanno limiti molto stringenti per quanto riguarda colore dei frutti, calibro, superficie dei frutti con difetti che devono essere ridotti al minimo. In tempo di cambiamento climatico, questi sono un problema.».
Quasi il 90% della frutta presente negli scaffali della GDO è di “prima scelta”, Categoria “Extra” e “I”, mentre la seconda trova uno spazio residuale. Anche se i prodotti di seconda categoria «non sono sinonimo di qualità inferiore». Anche questa frutta deve infatti rispettare una serie di caratteristiche minime, solo che sono ammessi difetti di forma, di colorazione e piccole ammaccature.
Il risultato, dice l’associazione nel dossier, è che «una regolamentazione nata per favorire la commercializzazione di prodotti di qualità e aumentare la competitività dei mercati, si è trasformata in un boomerang, che garantisce sopravvivenza solo a quelle produzioni che riescono a garantire un’alta percentuale di prodotti di prima scelta.».
La frutta brutta non piace ai supermercati, perché non piace ai consumatori, oppure, i consumatori possono essere educati a consumare i frutti brutti, ma buoni?
Alla domanda si risponde agevolmente con quanto scritto nel dossier: «La GDO dichiara di privilegiare i prodotti delle categorie più alte, poiché sono i consumatori a chiedere frutta e verdura sempre più bella e omogenea. Tuttavia, approfittando della loro posizione dominante sul mercato, le catene dei supermercati dovrebbero anche indicare una strada diversa. Incentivando e valorizzando la vendita di prodotti di II categoria, anche i prodotti “brutti” e fuori calibro assumerebbero un valore di mercato, avviando al contempo un processo di sensibilizzazione dei consumatori. Anche questi ultimi infatti, ormai disabituati a comprare prodotti meno standardizzati, dovrebbero prediligere prodotti di stagione, sfusi, valorizzando la qualità senza fermarsi alle apparenze.».