Foibe ed esodo dalmata-giuliano sono parte di quella Storia, che, per molti anni, i vincitori hanno tacitato, a partire dal ministro per l’Assistenza post-bellica, a cui arrivavano i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da quei territori e che, prima di farsene carico e rappresentare all’opinione pubblica, nella drammaticità della situazione, minimizzò il problema sostenendo che le notizie sulle foibe erano “propaganda reazionaria“.
di Piero Mastroiorio —
Diciannove anni fa, nel 2004, per la prima volta la maggioranza del Popolo italiano veniva informato circa il dramma accaduto a connazionali e tenuto nascosto per 70 anni, volontariamente, per vari motivi, dal “Giorno del Ricordo”, istituito con legge dello Stato n.92/2004 e ricadente ogni anno il 10 febbraio, la cui trattazione, ancora, a qualcuno, continua a dare fastidio.
Cosa si doveva e si deve ricordare?
Gli oltre 20.000 nostri fratelli torturati, assassinati e gettati nelle Foibe, fenditure carsiche usate come discariche, dai partigiani e dalle milizie comuniste della Jugoslavia del Maresciallo Tito alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nonché, degli italiani costretti all’esodo dalle ex province italiane della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.
Ancora oggi, nonostante una legge dello Stato, c’è chi fa finta di dimenticare, chi boicotta, come meglio può, le manifestazioni celebrative, chi non riesce a concludere i programmi scolastici di storia, pur di non parlarne.
Certo, è un tema che divide, ma quelle persone meritano, esigono, di essere ricordate, perciò, in breve, proviamo a capire cosa accadde e perché questa tragedia è stata confinata nel regno dell’oblio.
Nel 1943, a tre anni dall’inizio della guerra, a cui, forse, sarebbe stato meglio non partecipare, ma alla quale, non lo sapremo mai, il Duce, Benito Mussolini, decise di partecipare, forse, per evitare un’invasione da parte della Germania, le cose si erano messe male per l’Italia: il regime cadeva dopo la storica riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943, a cui seguirono lo scioglimento del Partito Fascistta, la resa dell’8 settembre ed il conseguente sfaldamento delle nostre Forze Armate.
Nei Balcani, soprattutto, in Croazia e Slovenia, regioni confinanti con l’Italia, il crollo dell’Esercito italiano aveva coinvolto le due capitali, Zagabria (Croazia) e Lubiana (Slovenia), dove le forze politiche comuniste guidate da Josip Broz, meglio conosciuto col nome di battaglia Maresciallo Tito, avevano avuto il sopravvento sconfiggendo i famigerati “ustascia”, i fascisti croati agli ordini del dittatore Ante Pavelic, che si erano macchiati di crimini, e i non meno odiati “domobranzi”, che non erano fascisti, ma semplicemente ragazzi di leva sloveni, chiamati alle armi da Lubiana a partire dal 1940, allorché la Slovenia era stata incorporata nell’Italia divenendone una provincia autonoma.
La prima ondata di violenza esplose proprio dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani comunisti di Tito si vendicarono dei fascisti che, nell’intervallo tra le due guerre, avevano amministrato questi territori con durezza, imponendo un’italianizzazione forzata e reprimendo e osteggiando le popolazioni slave locali. Con il crollo del regime, alla fine del 1943, i fascisti e tutti gli italiani non comunisti vennero considerati nemici del popolo, prima torturati e poi gettati nelle Foibe. Morirono, si stima, circa un migliaio di persone. Le prime vittime di una lunga scia di sangue.
Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, 1918, e fino al 1943, Dalmazia e Venezia Giulia, composte per più della metà da etnie slovene e croate, furono amministrate dall’Italia. La cui italianizzazione, durante il fascismo, venne perseguita attraverso una serie di provvedimenti come l’italianizzazione della toponomastica, dei nomi propri e la chiusura di scuole bilingui. Durante la guerra, si passo, dai pestaggi, alle fucilazioni e deportazioni nei campi di concentramento nazisti dei partigiani jugoslavi.
In una situazione delicata come quella che viveva l’Italia in quel periodo, e non solo, siamo a fine guerra, Tito e i suoi uomini, fedelissimi al regime di Mosca, iniziarono la loro battaglia per riconquistare Slovenia e Croazia, annesse al Terzo Reich tedesco, senza nascondere la volontà di impadronirsi della Dalmazia, della penisola d’Istria, del Veneto, fino all’Isonzo, non curanti dei luoghi dove vivevano comunità italiane sin dai tempi della Repubblica di Venezia.
Dopo i primi tentativi slavi del 1943, che costarono migliaia di vite agli italiani, e fino alla fine di aprile del 1945, i partigiani jugoslavi erano stati tenuti a freno dai tedeschi che avevano dominato Serbia, Croazia e Slovenia con il pugno di ferro dei loro ben noti sistemi: stragi, rappresaglie dieci a uno, paesi incendiati e distrutti, ma con il crollo del Terzo Reich nulla poteva più fermare gli uomini di Tito irreggimentati nel IX Korpus e la loro polizia segreta, l’OZNA, Odeljenje za Zaštitu NAroda, che tradotto vuol dire Dipartimento per la Sicurezza del Popolo.
L’obiettivo era l’occupazione dei territori italiani. Così nella primavera del 1945 l’esercito jugoslavo occupò l’Istria, fino ad allora territorio italiano e dal ’43 della RSI, Repubblica Sociale Italiana, e puntò verso Trieste, per riconquistare i territori che, alla fine della Grande Guerra, la Prima Guerra Mondiale, erano stati negati alla Jugoslavia.
Dopo la “facile” conquista di Fiume e di tutta l’Istria interna, i sanguinari comunisti di Tito, non riuscendo ad impadronirsi della città, del porto e delle fabbriche di Trieste, iniziarono con gli eccidi di massa, i saccheggi, le violenze più efferate e feroci esecuzioni contro gli italiani. Sicuro non avevano messo in conto gli Alleati, gli anglo-americani, che, dopo avere superato la Linea Gotica, avanzavano dal Sud Italia, quasi in gara con i comunisti Titini ed i Russi, liberarono, grazie alla Divisione Neozelandese del generale Freyberg, l’eroe di Cassino, appartenente all’Ottava Armata britannica, prima Venezia e poi Trieste. Il generale Freyberg entrò nei sobborghi occidentali di Trieste nel tardo pomeriggio del 1° maggio 1945, mentre la città era, formalmente, in mano ai tedeschi, che, asserragliati nella fortezza di San Giusto, si arresero il 2 maggio ’45, impedendo, così, a Tito di sostenere di aver “preso” Trieste. Cosa, che scatenò la ‘rabbia’ dei comunisti titini contro persone inermi in una saga di sangue degna degli orrori rivoluzionari della Russia del periodo 1917-1919.
Tra maggio e giugno del 1945 migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra. Altri furono uccisi dai partigiani e comunisti titini, gettati nelle foibe o deportati nei campi sloveni e croati. Secondo alcune fonti le vittime di quei pochi mesi furono tra le 4.000 e le 6.000, per altre 10.000.
Il premier italiano, Alcide De Gasperi, presentò agli Alleati, dal dicembre 1945, “una lista di nomi di 2.500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia” ed indicò “in almeno 7.500 il numero degli scomparsi“. In realtà, il numero degli infoibati e dei massacrati nei lager di Tito fu ben superiore a quello temuto da De Gasperi. Le uccisioni di italiani, tra il 1943 ed il 1947, furono almeno 20.000, mentre gli esuli, cioè, gli italiani costretti a lasciare le loro case, furono almeno 250.000.
Cosa furono le foibe per uomini, donne, ragazzi, preti, soldati… ITALIANI?
Si, italiani! Migliaia di persone morirono solo per il fatto di essere Italiani e tra queste i primi a finire infoibati, nel 1945, furono Carabinieri, Poliziotti e Finanzieri, nonché, i pochi militari fascisti della RSI e i collaborazionisti che non erano riusciti a scappare per tempo, in mancanza di questi, si prendevano le mogli, i figli o i genitori. Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele: i condannati venivano legati l’un l’altro con del fil di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi, si sparavano raffiche di mitra o colpi singoli di pistola, non a tutto il gruppo, ma soltanto i primi della catena, che, precipitando nella bocca della foiba, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati, così, a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sopra o sotto i cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.
Soltanto nella zona di Trieste, 3.000 sventurati furono gettati nelle foibe del Carso, soprattutto, nella Foiba di Basovizza, divenuta principale monumento alle vittime di questi eccidi. Nella Foiba di Basovizza, che si trova alle porte di Trieste, in realtà, il pozzo di una miniera di carbone, scavata nella roccia agli inizi del novecento, abbandonata, vi sono state gettate almeno 2.500 persone nei 45 giorni dal 1 maggio al 15 giugno 1945.
A Fiume, tanto fu l’orrore che la città si spopolò per la partenza di interi nuclei familiari, 20.000 persone abbandonarono case, averi, terreni, verso il resto dell’Italia, molto prima della conclusione della Conferenza della pace di Parigi (1947), a cui, come dichiarò il politico, storico, giornalista e militare britannico, Sir Winston Churchill: “erano legate le sorti dell’Istria e della Venezia Giulia.”. La Conferenza della pace di Parigi doveva dirimere la questione italo-jugoslava, la soluzione degli Alleati per Vienna e Berlino, la divisione della Germania e la situazione dell’Italia, presa dal passaggio dalla monarchia a repubblica. Soprattutto, bisognava determinare il confine tra Italia e Jugoslavia. Gli Stati Uniti, favorevoli all’Italia, proposero una linea che lasciava al nostro Paese gran parte dell’Istria. I sovietici, favorevoli ai comunisti di Tito, proposero un confine che lasciava Trieste e parte di Gorizia alla Jugoslavia. La Francia propose una via di mezzo, molto vicina all’attuale confine, che sembrava anche l’opzione più realistica: rispettava le divisioni linguistiche e seguiva il confine effettivamente occupato dagli eserciti nei mesi precedenti. Il dramma delle terre italiane dell’Est si concluse con la firma del trattato il 10 febbraio 1947 quando si decise che il confine sarebbe stato ricavato sulla proposta francese: l’Italia consegnò alla Jugoslavia numerose città e borghi a maggioranza italiana rinunciando per sempre a Zara, alla Dalmazia, alle isole del Quarnaro, a Fiume, all’Istria e a parte della provincia di Gorizia.
Il trattato di pace regalò alla Jugoslavia il diritto di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani, con l’accordo che sarebbero poi stati indennizzati dal governo di Roma. Ciò causò due ingiustizie: l’esodo forzato delle popolazioni italiane istriane e giuliane ed il mancato risarcimento. Tanti, decine di migliaia di italiani, dopo aver abbandonato le loro case ammassando sui carri, trainati dai cavalli, le poche masserizie che potevano portare con sé, riuscirono a sistemarsi faticosamente nel resto dell’Italia, nonostante gli ostacoli dei ministri del PCI, Partito Comunista Italiano, che, favorevoli alla Jugoslavia, minimizzarono la portata degli accadimenti.
Il ministro per l’Assistenza post-bellica, Emilio Sereni, sul cui tavolo finivano tutti i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da Pola, da Fiume, dall’Istria e dalla ex Dalmazia italiana, anziché farsene carico e rappresentare all’opinione pubblica la drammaticità della situazione minimizzò la portata del problema. Rifiutò di ammettere nuovi esuli nei campi profughi di Trieste con la scusa che non c’era più posto e, in una serie di relazioni a De Gasperi, parlò di “fratellanza italo-slovena e italo-croata“, sostenne la necessità di scoraggiare le partenze e affermò che le notizie sulle foibe erano “propaganda reazionaria“.
Come fu possibile silenziare per 70 anni una così immane tragedia?
La risposta è semplice quanto ovvia: la tacita complicità, durata decenni, tra le forze politiche centro-cattoliche e l’estrema sinistra. Soltanto dopo il 1989, con il crollo del muro di Berlino e la fine del comunismo sovietico, si comincio ad aprire qualche crepa nell’impenetrabile cortina del silenzio, tanto che il 3 novembre 1991, l’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si recò in pellegrinaggio alla Foiba di Basovizza e, in ginocchio, chiese perdono per un silenzio durato cinquant’anni. Nel 2004 il Parlamento italiano approvò la Legge Menia, dal nome del primo firmatario, il deputato triestino Roberto Menia, sulla istituzione del ‘Giorno del Ricordo‘ fissandolo il 10 febbraio di ogni anno, per commemorare le vittime e far conoscere le sofferenze che subirono, in un tempo non molto lontano, i nostri fratelli italiani della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.
Le foto dell’articolo sono tratte dalla rete.