Un’analisi di Federconsumatori focalizza il divario di genere che penalizza le donne passando per due fattori: stipendi più bassi, 3.000 € in meno ogni anno, prodotti più cari, dove una “gender tax” o “pink tax” fa aumentare i costi dei prodotti che comprano, dal meno “essenziale” ai beni di base come gli assorbenti.
di Redazione —
«Spesso si parla in effetti di pink tax e di blue tax per definire quel fenomeno per cui alcuni prodotti dedicati espressamente alle consumatrici donne costerebbero di più rispetto agli equivalenti destinati agli uomini, e viceversa», dice FEDERCONSUMATORI, che ha messo in rapporto i redditi e la spesa di genere, notando che tra uomo e donna c’è un divario che penalizza queste ultime. Così come le penalizza il gender pay gap, il divario retributivo di genere, la differenza tra il salario annuale medio percepito dalle donne e quello percepito dagli uomini: le donne guadagnano di meno, in media, la disparità di genere pesa in busta paga fino al 10% a svantaggio delle donne., arrivando a 3.000 € l’anno.
«Il divario di stipendio e di spesa, fra uomo e donna, è un tema sul quale sta aumentando l’attenzione. Rientra in questo settore anche la ‘tampon tax’, la tassazione degli assorbenti, oggetto di una costante mobilitazione perché “il ciclo non è un lusso”. Ora il Governo sembra aver imboccato la strada della riduzione. Il documento programmatico di bilancio per il 2022 prevede infatti il taglio dal 22% al 10% dell’IVA su prodotti assorbenti per l’igiene femminile. C’è da dire che molte iniziative chiedono di abbassare di più la ‘tampon tax’ e di portarla al 4%», evidenzia FEDERCONSUMATORI, che spiega: «Come è facile immaginare gli esiti sono tutti a svantaggio delle donne: mentre guadagnano mediamente il 10% in meno rispetto agli uomini, spendono di più per acquistare i prodotti a loro dedicati. Su 12 comparti di beni analizzati, ben 7 risultano più cari per il genere femminile. Guardando invece alle percentuali di divario, emerge come siano i prodotti destinati agli uomini, in molti casi, i più cari. Si tratta solo di operazioni di marketing che vogliono differenziare sempre più per genere (e ora anche per età) alcuni prodotti? Nel 90% dei casi sì. Ma è indubbio che il condizionamento culturale indotto dalla diffusione e dalla massiccia promozione di tali prodotti è forte e spinge molti all’acquisto di prodotti specifici, sempre più personalizzati.».
«La gender tax nelle sue sfumature di rosa o blu definisce quell’odioso fenomeno per cui prodotti destinati alle donne costerebbero di più rispetto agli equivalenti per gli uomini e viceversa su alcune categorie merceologiche precise. È un divario di prezzo fra prodotti che hanno lo stesso costo di produzione e distribuzione», rileva FEDERCONSUMATORI, che sottolinea: «Si parla di deodoranti, prodotti per il trattamento del viso, che presentano un costo maggiore nelle loro varianti “femminili”, più del 50 % di differenza, o ancora delle scarpe sportive e prodotti per la cura del corpo, che hanno un costo maggiore per gli uomini. Un’altra categoria fortemente colpita da questo fenomeno è quella dei profumi: quelli da donna costano il 29% in più rispetto a quelli da uomo, a parità di quantità e marca.».
La comparazione fatta dall’associazione parla di gender tax non solo per il profumo, ma anche per deodorante: la versione femminile costa il 51% in più. Come costa il 68% in più la versione da donna della crema viso. Più 16% la versione femminile del rasoio. Un po’ inferiore la pink tax per giacche e cappotti, più 8% la versione da donna, più 4% per maglie e felpe, più 5% le creme depilatorie.
La blue tax, invece, colpirebbe altri prodotti, come gli shampoo: che nella la versione maschile costerebbero il 67% in più, il bagnoschiuma da uomo più 9%, la crema corpo più 32%, la t-shirt più 26% e la versione maschile delle scarpe da ginnastica più 14%, secondo l’analisi di FEDERCONSUMATORI, che riporta anche le nuove teorie, quelle che parlano di un numero maggiore di prodotti in versione femminile: «Alcuni studiosi hanno ipotizzato che in realtà la ‘Pink Tax’ non sia così diffusa come si è ritenuto fino ad oggi, ma che piuttosto sia corretto parlare di ‘Pink Budget’, ovvero l’esistenza di un numero decisamente maggiore di oggetti specificatamente femminili rispetto a quelli dalle spiccate caratteristiche maschili. Quindi il problema non risiederebbe unicamente nel prezzo in sé, ma nel condizionamento culturale che porta le donne a dover comprare in volumi maggiori e oggetti ben specifici, incidendo maggiormente nelle tasche delle consumatrici. Un motivo in più per non lasciarsi condizionare.».
Guardando al divario retributivo, bisogna anche considerare che metà delle donne, secondo recenti analisi, lavora part time. Spesso questa non è una scelta libera, ma è una formula imposta dalle necessità familiari, dalla mancanza di servizi o dalla stessa azienda. Secondo l’ISTAT, Istituto di Statistica nazionale, il 19,5% delle donne occupate lavora in part time involontario. Oltre un decennio fa, prima dello scoppio della crisi economica, erano il 10%.
Guardando elle differenze tra il settore pubblico e quello provato emerge come «il ‘gender gap’ del pubblico si attesta attorno al 4,4% mentre quello del privato sale al 17,9%: in nessun altro Paese europeo la distanza è così evidente», dice FEDERCONSUMATORI, che sottolinea: «Va ancora peggio se si guarda al reddito complessivo annuo di uomini e donne, ovvero il divario complessivo (overall earnings gap): in Italia, infatti, le donne che lavorano sono ancora poche, i dati ISTAT rivelano che nella fascia fra i 15 e i 64 anni lavora solo il 50,1% delle donne, una su due, mentre per gli uomini la percentuale arriva al 68,7%. Al Sud risultano occupate 33 donne su 100, 64 al Nord e 57 al Centro. Una situazione nettamente peggiorata alla luce della pandemia, nel corso della quale tale divario è aumentato.».
Il divario di genere ha un peso diverso in busta paga a seconda dei settori. In media è del 10% a favore degli uomini, che guadagnano circa 3.000 € l’anno in più rispetto alle donne.