Mistificazioni, bugie, interessi di casata, fanno intendere la prigione come un albero senza radici, una città senza storia, un luogo di castigo sommerso indicibile, una sopravvivenza-negazione di una reale possibilità di riscatto da parte di chi paga il proprio debito alla collettività.
di Vincenzo Andraous —
Il carcere non è quello addomesticato nella solita grande balla: extrema ratio delle intenzioni istituzionali. Un carcere ridotto alla miserabilità più disumana, con un bacino di utenza esponenziale da doppia diagnosi, un carcere medico sprovvisto di lauree per intervenire sui sintomi, sulle malattie, le terapie da apportare, affinché sordi, muti e ciechi non abbiano a continuare a calpestare i diritti altrui, riservando poca attenzione-volontà per la prevenzione-ricostruzione individuale. Risultato: diseducativo, che non ha nulla a che vedere con la sempre più infortunata rieducazione, che consiste in una torsione innaturale che ammutolisce le coscienze, anche quelle più recalcitranti intellettualmente.
Sicurezza, rieducazione, riparazione, appaiono sempre meno come il collante che può tenere insieme una società e farla crescere.
Politica e stili di vita si travestono di ideologie d’accatto, gli obiettivi a tutela delle persone divengono esigenze contrapposte, una didattica inversa a una pedagogia in costante affanno, come se ognuna di queste facce della stessa medaglia fossero improvvisamente vissute come aut aut al fare sicurezza: mettere in salvo il benessere delle persone, la ricomposizione della frattura sociale, da attuare attraverso pratiche, funzioni, trattamenti che rimandano a una giustizia che rispetta la dignità delle persone, di quanti sono detenuti e stanno scontando la propria condanna ed intendono ritornare parte attiva del consorzio sociale, non certamente come soggetti antagonisti, perché ancora più delinquenti di quando sono entrati.
Mistificazioni, bugie, interessi di casata, fanno intendere la prigione come un albero senza radici, una città senza storia, un luogo di castigo sommerso indicibile, una sopravvivenza-negazione di una reale possibilità di riscatto da parte di chi paga il proprio debito alla collettività.
Gli attori di questa grande tragedia carceraria, si affannano nelle autoassoluzioni, come se 70-80 evasioni a gambe in avanti l’anno, suicidi, che l’informazione disegna con le corde strette al collo, le apnee asfissianti, non fossero un atto costringente della disperazione in una insubordinazione alla sopravvivenza non più procrastinabile, invece di un obbligante mea culpa, per tentare, davvero, di cambiare lo status quo, per lo più miserabile, ma non per questo meno pericoloso.
Continuo a pensare che quanto sta accadendo negli istituti penitenziari non è frutto di una non meglio identificata disattenzione, bensì qualcosa di studiato a tavolino, in scienza e poca ‘contusa’ coscienza, fino al punto di percepire un luogo deputato a scontare la pena per le persone che hanno commesso il reato, in un luogo e una dimensione irraccontabili, dove, sappiamo, sono accatastati numeri, cose e oggetti, una sorta di barriera materiale e psicologica, che annulla il dovere e il diritto di ogni cittadino di domandarci chi entra e mai “cosa” esce.