Al via l’impegnativa campagna “Good Clothes, Fair Pay”, che, attraverso la raccolta di 1.000.000 di firme, chiede un salario dignitoso per i lavoratori dell’abbigliamento, del tessile e delle calzature.
di Redazione —
Partita l’impegnativa iniziativa, Good Clothes, Fair Pay, la campagna che chiede un salario dignitoso per i lavoratori del settore dell’abbigliamento, del tessile e delle calzature, lanciata da Abiti Puliti insieme al network della Clean Clothes Campaign ed altre organizzazioni internazionali, come Fashion Revolution, Fair Wear Foundation, ASN Bank, Fairtrade, Solidaridad e la World Fair Trade Organization, che vuole raccogliere 1 milione di firme, sostenuta da ICE, Cittadini Europei, che, invita, tra l’altro, marchi e distributori a mettere in atto, controllare e divulgare un piano di azione con obiettivi precisi, per colmare il divario fra i salari effettivi e i salari dignitosi, nonché ad indentificare, da parte dei brand, i gruppi di lavoratori che più rischiano di essere colpiti da bassi salari, come donne e migranti e prevedere misure relative ai prezzi di acquisto e alle pratiche commerciali dirette ai loro fornitori, come spiega, Abiti Puliti, in una nota: «La proposta di legislazione riguarderebbe tutti i marchi e i distributori che vogliono commerciare nell’UE, indipendentemente dal fatto che abbiano sede in Europa o nel resto del Mondo.».
Il salario dignitoso è un diritto umano fondamentale ed è dignitoso quel salario che permette ai lavoratori di provvedere ai propri bisogni di base e a quelli delle persone a loro carico, tra cui il cibo, l’alloggio, l’istruzione e l’assistenza sanitaria, oltre a un certo reddito discrezionale per gli eventi imprevisti. La campagna scaturisce dalla povertà lavorativa diffusa fra i lavoratori del settore tessile, abbigliamento e calzature, come spiegano dalla campagna: «I costi salariali rappresentano, poi, solo una minima parte del costo dei vestiti. L’eventuale preoccupazione dei consumatori alla fine della catena, “i vestiti costeranno di più?” va smontata, perché l’impatto del costo del lavoro è davvero minimo. È un’idea sbagliata quella secondo cui se i lavoratori dell’abbigliamento ricevono un salario dignitoso, i consumatori vedranno aumentare significativamente i prezzi dei loro vestiti. In realtà, un rapporto di Oxfam ha rilevato che se i marchi pagassero ai lavoratori dell’abbigliamento un salario vivibile nella catena di fornitura, il costo finale di un capo di abbigliamento aumenterebbe solo dell’1%. C’è poi da considerare che i marchi hanno spesso “proprietari miliardari e profitti enormi” e dovrebbe essere loro responsabilità quella di garantire un salario dignitoso per i lavoratori, piuttosto che scaricare i costi sui consumatori.».
L’ICE nel chiedere un meccanismo di reclamo per affrontare i problemi nella catena di fornitura e agire come sistema di allarme rapido, spiega, in una sua nota come l’Iniziativa dei cittadini si concentri, nello specifico, «sui salari dignitosi nel settore tessile, si applica a qualsiasi impresa indipendentemente dalle sue dimensioni e sottolinea l’importanza di un impegno continuo delle parti interessate, come i sindacati e i lavoratori.».
«È ancora troppo facile per i marchi eludere le proprie responsabilità in qualità di datori di lavoro principali, seppure indiretti, di milioni di lavoratrici e lavoratori cui non riescono a garantire il diritto fondamentale ad una vita dignitosa. Esistono numerose iniziative volontarie che affermano di lavorare su questo tema, ma la realtà è che i lavoratori dell’abbigliamento sono a tutti gli effetti definibili come lavoratori poveri; il loro potere d’acquisto è estremamente basso ed è a malapena migliorato, in molti casi addirittura diminuito, nell’ultimo decennio. Le iniziative volontarie non hanno portato a miglioramenti significativi per i lavoratori, perché non hanno modificato l’asimmetria di potere che governa le catene globali di fornitura, causa prima di ingiustizia sociale e povertà. Sono necessarie leggi e obblighi insieme a sindacati forti e indipendenti per garantire alle lavoratrici condizioni di lavoro dignitose», dice, concludendo, Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, a proposito della campagna Good Clothes, Fair Pay, partita lo scorso 19 luglio 2022, che avrà la durata di un anno e, che, se riuscisse a raccogliere 1.000.000 di firme con valore legale, in base alle norme che regolano la ICE, vedrebbe la Commissione europea obbligata a discutere la proposta presentata dal Comitato promotore.