Per superare le resistenze interne, soprattutto del gruppo di Visegrad, il Consiglio UE, non solo ha lasciato agli Stati membri la libertà di scegliere se applicare la Direttiva o le normative nazionali in materia di protezione, ma ha limitato il diritto alla protezione temporanea alle sole persone “stabilmente residenti” in Ucraina, escludendo, così, dalla protezione europea, di fatto bloccata in Ucraina, una parte molto consistente dei circa 5.000.000 di stranieri presenti nel Paese.

di Piero Mastroiorio —

Nella prima settimana dallo scoppio della guerra in Ucraina, Paese di 44.000.000 di abitanti, già 1.000.000 di profughi aveva attraversato i confini del Paese e il 15 marzo scorso il loro numero risultava salito a ben 3.000.000, di cui 162.000 cittadini non ucraini, su stima l’UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati, su dati governativi, di cui, molti sono due volte profughi, facendo parte del 1.500.000 sfollati interni che il conflitto in Ucraina orientale e l’annessione russa della Crimea aveva già prodotto nel 2014: 1.800.000 risultano temporaneamente accolti in Polonia, quasi 500.000 in Romania e 345.000 in Moldavia. Una parte significativa si è anche già spostata in altri Paesi, come l’Italia, dove al 16 marzo sono arrivati 44.008 profughi ucraini, di cui la metà donne, 22.331, il 50,7% del totale, i due quinti minori, 17.858 e 40,6% e meno di un decimo uomini 3.819. Le principali città di destinazione sono Roma, Milano, Napoli e Bologna.
In mancanza di una ravvicinata soluzione diplomatica, il numero dei profughi potrebbe presto raggiungere i 4.000.000, come stima l’UNHCR, se non addirittura i 6.500.000, come stima l’UE.

Il 3 marzo scorso, per la prima volta da quando la Direttiva 2001/55 è stata varata, il Consiglio UE ha deliberato all’unanimità di attivarla a favore dei profughi provenienti dall’Ucraina: essa prevede, in tutta l’UE, l’istituzione di una protezione temporanea della durata di 1 anno, prorogabile al massimo per altri 2 anni, che implica l’immediato rilascio di un visto per l’ingresso in UE, al quale i cittadini ucraini avevano comunque già diritto anche senza visto, il rilascio di un titolo di soggiorno valido, la possibilità di esercitare un lavoro, di ottenere un’abitazione e di accedere ad altri servizi.
Per superare le resistenze interne, soprattutto del gruppo di Visegrad, cioè Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, il Consiglio UE, non solo ha lasciato agli Stati membri la libertà di scegliere se applicare la Direttiva o le normative nazionali in materia di protezione, ma ha limitato il diritto alla protezione temporanea alle sole persone “stabilmente residenti” in Ucraina.
In tal modo, ha ristretto l’applicazione della Direttiva ai soli cittadini ucraini, agli apolidi e ai cittadini di Paesi terzi, insieme ai rispettivi familiari, che in Ucraina risiedevano o beneficiavano di protezione internazionale o nazionale prima del 24 febbraio 2022.

Resta così esclusa dalla protezione europea, di fatto bloccata in Ucraina, una parte molto consistente dei circa 5.000.000 di stranieri presenti nel Paese, come da dati ONU del 2020: lavoratori, studenti, richiedenti asilo e altre categorie di migranti a breve termine. Per loro, le uniche flebili possibilità di sfuggire al rischio concreto di morire in guerra sono la richiesta di asilo, se e quando le guardie di frontiera ucraine e dei Paesi UE confinanti ne autorizzino il transito, o il rimpatrio, la cui praticabilità è pressoché nulla. Sono numerose le segnalazioni di persone respinte al confine ucraino in base ai loro tratti somatici, specialmente il colore della pelle, non corrispondenti a quelli “tipici” della popolazione locale.
Le restrizioni con cui il Consiglio UE ha deciso di attivare la Direttiva del 2001 rischiano dunque di istituzionalizzare una divisione tra profughi di “serie A” e profughi di “serie B, di fatto eseguita alla frontiera su criteri prettamente discriminatori, mentre offre agli Stati membri confinanti, quali Polonia, Ungheria, Slovacchia e Romania, la possibilità di evitare gli oneri di accoglienza e di protezione che il Regolamento di Dublino imporrebbe loro, in quanto Paesi di primo approdo.

La Direttiva, infatti, consente ai beneficiari di protezione temporanea la possibilità di circolare all’interno dell’UE e di godere dell’assistenza dei Paesi membri in cui sceglieranno di vivere, come l’Italia, la Germania o la Francia, dove è già presente una significativa collettività di connazionali.
Possibilità che resta preclusa ad altri profughi, a loro volta vittime di drammatici conflitti e crisi umanitarie, che pure stazionano ai confini comunitari, si pensi agli afghani, ai siriani o agli iracheni bloccati, poco più a Nord, sullo stesso confine polacco con la Bielorussia. 
La più diretta presa di coscienza del dramma dei profughi e lo slancio di solidarietà dei popoli europei verso gli ucraini possono essere un’occasione per sbloccare finalmente la riforma del Regolamento di Dublino e dismettere la politica europea di esternalizzazione delle frontiere e di respingimento illegale e violento, come argomenta, anche, il recente studio “Ospiti indesiderati. Il diritto d’asilo a 70 anni dalla Convenzione sui rifugiati (Roma, 2022)“, curato da Istituto di Studi Politici “S. Pio Ve IDOS, Immigrazione Dossier Statistico.

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