C’è urgenza di chiederci quale persona entra in un carcere e quale “cosa” ne esce, quale trattamento ha ricevuto quella persona, se oltre alla doppia punizione impartita, ha avuto possibilità di imparare qualcosa di positivo, o se rieducazione sta più semplicemente a un mero copia incolla.

di Vincenzo Andraous

Sui quotidiani appaiono articoli e interviste più o meno strabordanti buone intenzioni da parte della politica, mentre gli operatori scrivono di concerto il copione delle disfunzioni che generano disumanità e intollerabilità nel carcere italiano.
Sfogliando le pagine dei giornali si nota un metodo artigianale poco propenso a educarci a conoscere il mondo penitenziario, riducendolo a qualcosa che appare lontano e sembra non dover preoccuparci, perché noi siamo sicuri che non ci finiremo mai lì dentro. Invece, la carta stampata non ce lo dice, ma in quel calderone di misfatti e illegalità ci continua a finire dal lattaio al meccanico, dal dottore al professore, dall’uomo di legge al malvivente meno incallito, nessuno escluso.

Forse più maldestramente si tratta di un vero e proprio pasticcio delle intenzioni, creato ad arte per non prendere per le corna le tante magagne da risolvere, per non mettere in campo una giustizia equa, una solidarietà costruttiva, che non dimentica le priorità di tutela a garanzia delle vittime, degli innocenti, ma che da questo punto di partenza rilancia nuove opportunità di conciliazione da parte del detenuto.
C’è un uso sconsiderato di parole valigia, parole consunte e logorate, proprio per non approdare a niente, ma con lo scopo di rimandare al cittadino l’immagine di una conoscenza e sapienza a dir poco folgorante.
In questo periodo di buone intenzioni, di proposizioni illuminate, di interventi letterari, ma poco figurativi una realtà a dir poco sconcertante, c’è la sequela di errori reiterati, il morire distante, una sorta di evasione con i piedi in avanti, uno, due, tre suicidi in un mese per giunta nello stesso lazzaretto disidratato, come a significare che dal primo rantolo all’ultimo, a fare da ponte rimane l’indifferenza.
C’è chi viene ammazzato e ritrovato soltanto qualche giorno dopo, come a dire che la carenza di personale non consente attenzione, cura, quella famosa e bistrattata buona regola della vita anche dentro una cella.
In ogni convegno, tavola rotonda, incontro sul tema carcere, professionisti del diritto, operatori sul campo da decenni, voci ben intruppate in fila per tre, ho l’impressione che vorrebbero azzardare in coerenza e coscienza una risposta alla violenza, illegalità, ingiustizia che alberga in un istituto penitenziario, ma al dunque che ci dicono?
Che mancherebbe l’acqua calda, non ci sono i bidè e, come collante a tanta lungimiranza, la carenza di personale.

Sono vecchio e l’alzheimer mi morde il collo, seppure a fatica rammento, però, che dentro una cella un nuovo orientamento esistenziale, può essere raggiunto unicamente operando con lo strumento dell’educare, non con la solita reiterata tergiversazione per impedire la comprensione, la possibilità di una parete di vetro, dove osservare quel che accade, o purtroppo non accade per niente, perché il diritto è sottomesso e violentato dal sovraffollamento, dagli eventi critici, dai problemi endemici all’Amministrazione.
Ricordo bene che il rispetto per il valore di ogni persona ha urgenza di essere inteso non come qualcosa di imposto, ma come una condizione quotidiana da raggiungere attraverso l’esempio di persone autorevoli, anche là, dove incombe lo spazio ristretto di un cubicolo blindato, là dove non dovrebbe mai essere annientata la dignità del recluso.
Se è vero che le vittime sono quelle che soffrono dimenticate nella propria solitudine, se i parenti delle vittime se la passano peggio dei colpevoli, occorre davvero fermarci a riflettere e non rimanere indifferenti a una prigione ridotta dapprima all’ ingiustizia dei fatti e poi delle parole.
Se la galera costringe deliberatamente alla sopravvivenza e quindi alla violenza, non è certo a causa della mancanza di acqua calda, ma perché non ci sono i presupposti per un ripensamento culturale sulla pena e sulla sua utilità e scopo, non ci sono regole chiare su cosa significhi applicare quelle norme e se tali norme e regolamenti sono davvero applicati, o vegetano nell’impossibilità di avvicinarsi a una emancipazione sostanziale da quella sopravvivenza.
Come ho più volte detto c’è urgenza di chiederci quale persona entra in un carcere e quale “cosa” ne esce, quale trattamento ha ricevuto quella persona, se oltre alla doppia punizione impartita, ha avuto possibilità di imparare qualcosa di positivo, o se rieducazione sta più semplicemente a un mero copia incolla.

333.3446246 Nicola – Torremaggiore — 347.5270649 Piero – San Severo
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