Non c’è sempre la baby gang come narrazione, perché è assai diversa la realtà dei più giovani, spesso inebetiti dall’uso e abuso dell’agio, sempre più spesso impattano nel vuoto di senso che li circonda, nelle violenze di gruppo, verso i più deboli, i “diversi”. Forse, di questo sarebbe bene relazionarsi, intorno alla tavola imbandita di casa propria.
di Vincenzo Andraous —
Qualche giorno addietro ho partecipato a un incontro dove c’erano parecchi genitori preoccupati per il moltiplicarsi di accadimenti tragici che hanno come protagonisti giovanissimi. Quando si parla di bulli, baby gang, bande, si corre sempre il rischio di usare le parole attraverso slogan o sottolineature altisonanti, ma poco aderenti al terreno impervio che si sta percorrendo. Un genitore quasi urlando, ha detto che ai suoi tempi i giovani erano assai meglio di quelli di oggi, dimenticando che nel frattempo siamo cambiati noi.

Usare impropriamente le parole significa fare di tutta l’erba un fascio, equiparare un atto bullistico ad un’azione prettamente deviante è ben altra cosa, ci sono gruppi di pari per niente emarginati, per nulla additati a criminali, che in gruppo fanno e disfano le regole, le libertà altrui, compresa la propria, commettendo anche reati, senza per questo esser ancora criminali.
Fare parte di una baby gang, di una gang, significa esser laureati a pieni voti ai disvalori della strada, dell’angolo buio, alle regole non scritte che però contano quanto una lama di coltello. Maranza e adolescenti imbizzarriti non sono la stessa cosa, spingere e urtare non è la stessa cosa di colpire sui denti, di rompere le ossa, di mandare al creatore qualcuno, per imporre la propria leadership.

Non è un’azione educativa gridare che a casa mia non ci sono bulli, violenti, delinquenti, tossici, dall’altra parte della strada ci sono figli che fanno queste cose, accade a casa tua, non nella mia. Poi improvvisamente qualcuno bussa alla nostra porta per dirci che nostro figlio, se tutto va bene, è all’ospedale o in carcere, peggio, non c’è più.
A quel genitore capace, senza se e senza ma, di ipotecare il futuro, vorrei dire, che, i giovanissimi fanno uso di droga, di beveroni coloratissimi, alcuni usano il bicipite per aggredire, per non sentirsi inadeguati, ma non significa che lo strumento della violenza connota la propria identità, marcando il proprio spazio, la propria dimensione, il proprio territorio. A quel padre direi sottovoce e in punta di piedi di andare a vedere a che ora ha fatto ritorno nella sua stanzetta e in che condizioni suo figlio, peggio, se neppure è rientrato.
Non c’è sempre la baby gang come narrazione, perché è assai diversa la realtà dei più giovani, spesso inebetiti dall’uso e abuso dell’agio, sempre più spesso impattano nel vuoto di senso che li circonda, nelle violenze di gruppo, verso i più deboli, i “diversi”. Forse, di questo sarebbe bene relazionarsi, intorno alla tavola imbandita di casa propria.

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